Stefano era solo uno dei tanti. Malato, estremamente sofferente, economicamente affaticato aveva letto di quanto levarsi di mezzo con una bella iniezione in Svizzera fosse “una lezione di dignità”. Lo aveva letto sui giornali, sulla sentenza della Corte Costituzionale celebrata da tutti i media senza eccezione che il 22 novembre scorso aveva depenalizzato il suicidio assistito, su quella del tribunale di Milano che il 23 dicembre aveva assolto Marco Cappato. Tutti a spiegargli che il suicidio era “dignità”, implicitamente indicando nella sopravvivenza in quelle condizioni precarie un poco dignitoso modo di pesare sui propri familiari e sulla società tutta intera. E Stefano allora proprio nei giorni di Natale aveva consegnato ai giornali il suo annuncio e il suo intendimento: andare in Svizzera e chiedere il suicidio assistito, aveva letto sui giornali che era facile, si poteva fare giusto racimolando un po’ di soldi per pagare l’associazione pietosa che ti prepara il pentobarbital, le sue sofferenze così sarebbero finite.
Il 28 dicembre nel silenzio e nella totale discrezione un uomo buono, il vescovo di Vicenza Beniamino Pizziol, si è recato nel piccolo appartamento di Cassola dove Stefano vive. Così lo stesso Stefano racconta oggi il loro incontro: “È stato facile aprirmi con lui, raccontargli della mia vita, del mio dolore e delle difficoltà che devo affrontare. Mi ha ascoltato senza giudicarmi, anche quando gli ho detto della mia scelta di andare in Svizzera”. Il vescovo ha lasciato riservato il contenuto del colloquio con Stefano, si è limitato a dire: “Abbiamo parlato solo marginalmente della sua intenzione di andare in Svizzera per scegliere la morte assistita, quello a cui tenevo era fargli sapere che ci sono, che la nostra Chiesa gli è sempre accanto. L’ho semplicemente ascoltato, gli ho testimoniato che siamo al suo fianco”.
Il gesto del vescovo Beniamino ha innescato una gara di solidarietà, la notizia è comparsa sui giornali e Stefano ha rinunciato al suo proposito di andarsi a suicidare in Svizzera. Una frase in particolare mi ha colpito: “Molti amici che prima erano solo virtuali, che si facevano vivi solo su Facebook, sono venuti a trovarmi di persona. So che può sembrare una sciocchezza per chi ha una vita normale, ma per me è davvero un grande regalo quando qualcuno mi dedica un po’ del suo tempo”.
Traete voi la lezione che volete da questa storia. Noi del Popolo della Famiglia per questo saremo mercoledì davanti al tribunale di Massa per l’udienza del processo a Marco Cappato e Mina Welby che hanno aiutato Davide Trentini, 53enne malato di Sla, a suicidarsi. Non sussistono nel caso di Davide neanche le condizioni fissate dalla sentenza della Corte Costituzionale per la vicenda Dj Fabo, perché Davide non era collegato a supporti che ne determinavano la sopravvivenza. Se Cappato non fosse condannato vorrebbe dire che i famosi “paletti” fissati dalla Consulta sono inconsistenti, sono solo chiacchiere, che dunque si possono suicidare le persone sostanzialmente senza limiti, basta una generica intenzione di voler scegliere con “autodeterminazione” una “fine dignitosa”. Come aveva deciso Stefano. Poi, però, chi si è avvicinato a lui lo ha fatto per dargli conforto, per non farlo sentire più solo, per dirgli: sono con te nella tua sofferenza. Non per mettergli in mano un biglietto sola andata per la Svizzera con la sua morte da brandire poi come uno scalpo in una battaglia ideologica fatta sulla pelle dei più sofferenti. Dando conforto, prendendosi cura (perché anche gli inguaribili sono curabili) i propositi di morte possono cambiare e diventare nuove ragioni per vivere. Sì, con l’amore piazzato al posto della morte, le cose cambiano.
Ora i soldi che aveva raccolto per darli all’associazione che lo avrebbe aiutato a morire in Svizzera, pur con tutte le difficoltà della sua difficile condizione di disabile grave senza possibilità di miglioramento clinico Stefano vuole utilizzarli per realizzare un desiderio: “Vorrei tanto vedere New York”.
Chissà se Stefano ce la farà. La vita può deludere e spesso i sogni non li realizza, è la condanna della nostra finitezza fragile e mortale, siamo limitati sempre da uno iato che tiene dilatati i confini tra il nostro essere e il nostro voler essere. Ma è il viaggio dall’uno verso l’altro quello che conta, quello che non deve essere spento dalla disperazione spacciata per libertà. E il viaggio di Stefano, grazie semplicemente al calore di un vescovo testimoniante e di alcune persone buone, continua. Continua e non porta più in Svizzera.