Mi sono formato nella politica tradizionale. Dc, Ppi e Pd erano strutture organizzate per gestire il potere. Ne ho appreso le logiche e la modalità di offrire motivazioni, talvolta reali e talvolta di comodo. La crisi della politica e della democrazia, sostanzialmente commissariate attualmente in Italia, nascono con la crisi della partecipazione. Entrai nella Dc che aveva quasi tre milioni di iscritti, oggi il partito più grande non arriva al 10% di quella cifra. Entrai nella Dc ferita dall’assassinio di Moro del 1978 e dalla sconfitta al referendum sull’aborto del 1981, che coincise con la perdita dopo 33 anni della presidenza del Consiglio. Ma avvertivo il bisogno di offrire energie nuove ad un progetto che aveva ancora senso: andavo alle scuole medie e il 4 marzo 1985 varcai la soglia della sezione democristiana di via Romolo Gessi al Testaccio, quartiere in mano al Pci, chiedendo se serviva una mano “per cacciare i comunisti dal Campidoglio” visto che a maggio si sarebbe votato per le amministrative. Attaccai manifesti, distribuii volantini, coinvolsi amici e compagni di classe in iniziative varie di territorio. Vincemmo le elezioni. Ebbi la sensazione che fosse stato anche merito mio, del mio impegno. Per celebrare mettemmo insieme una piccola cifra per ciclostilare il primo volantino del nostro Nucleo Studenti Medi DC e ci stampammo sopra uno slogan che ricordasse che pure se sconfitti, se c’era la vita in gioco non ci davamo per vinti: NO ALL’ABORTO.
Quando il percorso nella politica tradizionale si chiuse, nel 2013, anno in cui abbandonai insieme il seggio parlamentare e la tessera del Partito democratico fu sempre per una questione cruciale. I processi interni per omofobia mi avevano irritato e convinto che il silenzio non poteva essere comprato con quindicimila euro al mese. Uscii da tutto e mi misi a scrivere Voglio la mamma impressionato dal fatto che i diritti fondamentali di un bambino potessero essere lesi da dei ricchi e potenti che se lo compravano dopo aver affittato l’utero di una donna.
Questa è la mia vita pubblica. Una battaglia continua nel territorio melmoso della politica, dove so muovermi perché ne conosco tutti i trucchi. Ma so anche ri-conoscere le motivazioni. Posso essere duttile, elastico, silente, persino cinico in alcuni frangenti se la situazione lo richiede. Ma so anche quando bisogna mettere tutto in gioco, anche la vita.
L’ultimo biennio l’ho trascorso condividendo il senso d’angoscia dei miei concittadini: il lockdown del 2020, il crescente numero di morti, l’evidente inadeguatezza del ministro Roberto Speranza e dell’intera catena di comando dal vanitoso Giuseppe Conte in Casalino in giù; il decisionismo 2021 di Mario Draghi, la campagna vaccinale del general Figliuolo, la nascita della casta dei virologi star che dettano a partiti ormai in ginocchio e in cui i cittadini non credono più, la gestione normativa e fattuale della cosa pubblica.
Nel 2022 ho visto arrivare qualcosa di mai visto prima: l’esperimento sociale di controllo di massa. In vista del Consiglio dei ministri del 5 gennaio scrissi qualcosa di molto netto, con una serie di avvertimenti per Mario Draghi, tutti disattesi. Il decreto entrato in vigore il 10 gennaio 2022 è stato impressionante tra obbligo vaccinale e impedimenti vari delle libertà fondamentali fino alla lesione definitiva del diritto al lavoro con multe pesantissime. Un decreto insensato che contiene norme che in qualsiasi altro Paese del mondo avrebbero provocato la rivoluzione e sono state imposte solo in Italia. Ancora una volta mi sono reso conto che era la vita stessa a essere messa in gioco e tacere era diventato impossibile perché i diritti lesi sono quelli sostanziali, fondamentali per la persona umana.
Il 15 gennaio ho partecipato a un convegno organizzato dal Popolo della Famiglia delle Marche sul tema eutanasia e suicidio assistito, altra battaglia che considero cruciale in questi Anni Venti che segneranno il mio saluto alla politica attiva. Se consentiamo allo Stato di prendersi il diritto di intervenire sul corpo di un soggetto terzo, sopprimendolo o limitandolo in virtù di una falsa premessa che concede uno stato d’emergenza protatto ad libitum, siamo nello stesso territorio di uno Stato che ritiene di poter essere talmente dominante sui suoi cittadini da limitarne fortemente la libertà di aggregazione e di espressione secondo gli stilemi del socialismo dirigista, dunque occorre combattere senza se e senza ma per ristabilire i principi costituzionali democratici.
Mi hanno rimproverato alcuni: troppo tardi, dovevi protestare prima. Rispondo: il segno è stato superato dal Consiglio dei ministri del 5 gennaio, lì si è entrati nel territorio dell’intollerabile. Rimproverano altri: i dati provano che i vaccini funzionano, se non ti vaccini diventi un no vax e fai diventare no vax tutti noi che ti seguiamo. Rispondo: sui vaccini il calcolo costi-benefici non può che essere personalissimo, se mi chiedono la mia scelta rispondo serenamente, la questione di come vengo etichettato non mi interessa. So che c’è ancora una volta la vita in gioco e ancora una volta serve il massimo di impegno perché diritti fondamentali vengono lesi e ho trascorso una vita intera a battermi per difenderli. Non defletterò ora che vedo il potere mettere la maschera più pericolosa, suadente fuori ma dittatoriale dentro, violenta in sostanza.
Leggo conferme continue di quanto sia giusto il cammino intrapreso, dalla Corte Suprema americana che annulla l’obbligo vaccinale nelle grandi aziende “perché contrario alle libertà fondamentali della persona” ad Amnesty International che richiama il governo Draghi affinché anche i non vaccinati possano lavorare e prendere i mezzi pubblici “senza discriminazioni”. Allora non sbagliavo quando parlavo di norme dal sapore di apartheid. Ciliegina sulla torta, il Tar che boccia il protocollo di Roberto Speranza sulla “vigile attesa” contraria alle cure domiciliari, sentenza che in un Paese normale avrebbe comportato le dimissioni immediate del peggior ministro della Salute che poteva capitarci sotto pandemia.
Nessun Paese al mondo ha trattato i cittadini come il governo Draghi ha fatto con i propri. Il Popolo della Famiglia l’ha detto, lo ripeterà, perché la questione dell’obbligo vaccinale è intollerabile e la lesione del diritto allo stipendio, alla mobilità, ai trasporti, addirittura all’attività sportiva per i bambini sono ferite senza senso alle libertà fondamentali di milioni di famiglie. So che c’è la vita in gioco, ancora una volta. Il mio primo maestro Roberto Ruffilli si ritrovò le brigate comuniste in casa nel 1988 perché la lucidità delle sue idee andava spazzata via, avrebbero salvato l’Italia dalla crisi dei suoi partiti e della sua democrazia. Ha pagato, ma non l’ho dimenticato, resta il mio esempio.
Serve coraggio, lo dimostreremo anche ai menagrami che persino in tv con ghigno mortifero, dall’alto della loro vanità, profetizzano ospedale e camposanto. Come sempre, risponderemo senza mezze misure. Siamo fatti così e a 50 anni non sono tra coloro che sono in grado di cambiare, né per convenienza né per necessità.
Il Popolo della Famiglia sta con le famiglie angosciate da una lesione di diritti costituzionali senza precedenti che, se concessa al governo Draghi e alle sue false premesse, potrebbe essere ripetuta con coercizioni sempre più lesive della dignità della persona. Rischiamo l’accerchiamento, anche per via di partiti tutti proni alle volontà dell’ex presidente Bce, per questo l’assedio alle libertà va rotto subito. Se l’Italia è nel mirino addirittura di Amnesty International sui diritti umani fondamentali, per la mia storia è diventato impossibile tacere.